OBLIO E FUNZIONE DEL NOME

Seminario tenuto nel quadro degli insegnamenti dell’ALI Milano
Milano, 9 aprile 2001

EDITORE: ASSOCIAZIONE LACANIANA INTERNAZIONALE MILANO

Jorge Cacho

Marisa Fiumanò – Il dottor Giorgio Cacho è uno psicoanalista che lavora a Parigi e insegna all’università di Parigi XIII, ha vissuto a lungo in Italia prima di trasferirsi a Parigi per perfezionare la sua formazione e ha deciso di rimanere lì, ma non senza qualche nostalgia che lo fa venire in Italia, poco finora a Milano, molto più a Roma, forse, e che noi contiamo di ospitare ancora l’anno prossimo nel corso dei nostri seminari. Il dottor Cacho stasera ci parlerà di un tema che in qualche modo abbiamo affrontato ma che naturalmente lui tratterà a suo modo, con la ricchezza che gli è propria. Il titolo che ha voluto dare alla sua conferenza è «Oblio e funzione del nome». Se qualcuno di voi avesse letto l’annuncio sul «Corriere della Sera» naturalmente si sarà reso conto che è sbagliato, era «Oblio e dimenticanza del nome», che comunque non è dispiaciuto come lapsus al dottor Cacho, e di questo poi ci vorrà parlare. Dunque, gli lascio senz’altro la parola.

J. Cacho – Infatti non mi è affatto dispiaciuto, prima di tutto perché oblio e dimenticanza sono due significanti molto differenti, e poi perché questo sdoppiamento si può anche intendere, dal punto di vista dell’analista, come una difficoltà particolare a dimenticare il nome, cioè che bisogna aggiungere una dimenticanza a un’altra per poter appunto negare quello che costituisce il soggetto nella sua identità. Ciò riguarda il rapporto del nome con l’identità del soggetto, così come Freud lo introduce nella Psicopatologia della vita quotidiana e come Lacan lo elabora nei suoi diversi seminari. Quindi il mio intervento spero sarà assai semplice: farò emergere dal testo di Lacan nei suoi diversi seminari, come lui, nel progressivo avanzamento del suo teorizzare, raggiunge ad ogni volta degli elementi che sono insiti, interni alla funzione del nome.

Vorrei prima di tutto molto brevemente ricordarvi qual è il contesto nel quale la Psicopatologia della vita quotidiana è stata scritta da Freud, perché questa dimenticanza del nome è apparsa, come sapete, nel primo capitolo di quest’opera, cioè “La dimenticanza del nome”, con l’esempio della dimenticanza del nome Signorelli. Vorrei ricordare prima di tutto che in questo periodo, siamo nel 1901, Freud è occupato a elaborare le basi teoriche della sua teoria dell’inconscio: ha scritto la Traumdeutung e anche il lavoro sull’isteria nel caso Dora. È un’epoca di grandissima attività di Freud, il che sembra contraddittorio con questo libro Psicoanalisi della vita quotidiana. Perché? Se aprite questo testo d’altronde (nell’edizione Mondadori l’introduzione è fatta dalla mia amica Marisa Fiumanò), troverete una raccolta curiosa di fenomeni psichici, per interpretare i quali, però, Freud non fa uso della sua teoria, elaborata fino a quel momento.

E quindi ci si può chiedere: qual è lo scopo di questo libro così enigmatico? Enigmatico, perché? Perché, per quello che possiamo dire, quelli presentati sono dei fenomeni senza nessun senso, che non fanno senso, che sono al di fuori del senso; dei fenomeni che, contrariamente ad altri testi freudiani, non vengono inseriti in nessuna storia clinica. Sono fenomeni il cui meccanismo fondante, causale, è un meccanismo proprio al linguaggio, è il meccanismo della metonimia. E noi lo vedremo funzionare proprio con una forza particolare.

Voglio anche ricordarvi che il periodo in cui Freud scrive questo libro così strano, è quello della rottura con colui di cui alcuni hanno detto che era stato il suo “analista”, cioè Fliess. Ci si può chiedere perché proprio nel momento della stesura della Psicopatologia della vita quotidiana avvenga questa rottura drammatica con Fliess, che ha avuto nella vita di Freud e nello scambio teorico un’importanza così centrale, tanto che si è parlato di rapporto fondato sul transfert. Si può fare quindi un’ipotesi: che la rottura con Fliess avvenga in questo momento preciso – vi propongo questa soluzione poi voi mi direte, magari nella discussione, qual è il vostro punto di vista – è, in un certo senso, logico.

Fliess, nei suoi due grandi libri Il corso della vita e Il rapporto tra il naso e gli organi sessuali, presenta una teoria totalizzante e generale, una sorta di Weltanschauung esplicativa di ogni fenomeno umano individuale e collettivo. Quindi è una teoria, diciamo, che va all’opposto della teoria di Freud, che parte dal singolare e che non può essere mai vissuta e capita come una Weltanschauung, come una visione del mondo. I fenomeni della Psicopatologia della vita quotidiana, hanno come punto comune, pur essendo diversi nelle loro manifestazioni, il fatto che tutti si riferiscono a delle perturbazioni del discorso. Qualsiasi fenomeno della psicopatologia quotidiana, non possiamo che esaminarlo secondo la sua natura, cioè come perturbazione del discorso. Ma perturbazione del discorso la cui origine si trova, secondo Freud, in un conflitto psichico.

Vorrei dare un’ultima indicazione su questo libro. Freud chiama questi fenomeni Psicopatologia della vita quotidiana e non ne dà una teorizzazione. Ne indica evidentemente certi meccanismi, ma resta molto al di qua della teorizzazione che ormai ha fatto dell’apparato psichico, sia nelle Psiconevrosi da difesa, sia nell’Interpretazione dei sogni, ecc. Quindi si potrebbe anche ipotizzare, come proposta di lettura di questo libro molto particolare, che Freud abbia voluto, con questo scritto, mantenere un’apertura alla vita quotidiana, apertura dell’inconscio, l’inconscio come non chiuso; una volta, però, che l’analisi è finita, il che dà dell’analisi una prospettiva molto particolare. La fine dell’analisi non viene a significare secondo questo libro, a mio avviso, la chiusura dell’inconscio, il raggiungimento di una pienezza del senso che spiegherebbe l’esistenza del soggetto fin nei più piccoli particolari. È quindi un invito, mi sembra, a mantenere questa apertura, questa vacillazione dell’inconscio, e quindi del soggetto dell’inconscio, che non può assolutamente ridursi a un’essenza, a qualcosa di compiuto, chiuso, realizzato; ma è qualcosa che si trova sempre tra i due margini fra i quali la vita di ogni soggetto e della collettività cammina e avanza come può.

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È un libro sulla violenza psicologica e fisica di un uomo nei confronti di una donna, che definisce “sua”.

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Qual è il meccanismo psicologico che fa interagire i due protagonisti e che sostiene tutta la vicenda?

Come dice ad un certo punto una terapeuta consultata da Elisabetta, la protagonista, la donna abusata, ci vuole una certa complicità da parte della vittima per permettere violenze reiterate, denunce fatte e poi ritirate così come l’esporsi al rischio di essere ammazzata.

Su questa “complicità” voglio soffermarmi. La metto tra virgolette perché in genere è definito “complice” il rapporto tra un uomo violento e una donna che si lascia sottomettere. Forse però il termine non è appropriato perché la complicità sottintende anche un obiettivo comune che invece, in questo caso, è del tutto assente.

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Una riflessione dal capitolo XIV del seminario di Lacan L’etica della psicanalisi.

Abstract: L’episodio evocato da Lacan dell’incontro tra San Martino e il mendicante ci offre uno spunto di riflessione e di lavoro, la possibilità di un non incontro tra il bene presunto (in questo caso di san Martino) e quello di un altro (il mendicante).

Intervento al terzo incontro di ALI in Italia su L’Etica della psicanalisi

Il punto di partenza per questa riflessione è la citazione presente nel capitolo XIV del Seminario VII L’Etica della psicoanalisi in cui Lacan parla dell’amore per il prossimo e più precisamente dell’episodio di san Martino (pag. 219 e seguenti).

​Ricordiamo brevemente l’episodio di san Martino: un giorno, quando Martino è ancora un soldato romano, incontra un povero. Senza pensarci, taglia con la spada il proprio mantello e lo offre al mendicante; immediatamente il sole si alza in cielo e la temperatura si scalda. La notte successiva, Martino ha una visione: Gesù gli fa visita e gli riporta il pezzo mancante del suo mantello. Al risveglio, il mantello è nuovamente intatto; a seguito di questo episodio, Martino decide di farsi battezzare, di lasciare l’esercito e di prendere i voti (e diventerà vescovo nell’anno 372 a Tours).

Questo episodio ci fa riflettere su due aspetti: il primo, più vicino al piano etico, evidenzia una divisione tra il nostro (presunto) bene e il bene dell’altro a cui non è allineato. Lacan pone la questione di come queste due posizioni potrebbero non incontrarsi mai; ci suggerisce, inoltre, che il povero potesse forse mendicare qualcos’altro: forse voleva che san Martino lo uccidesse o anche che lo fottesse, e quindi non volesse necessariamente essere aiutato come san Martino ipotizzava. Ecco qui un primo spunto di riflessione e di lavoro, la possibilità di un non incontro tra il bene presunto (in questo caso di san Martino) e quello di un altro (il mendicante).