Un commento al libro di Eleonora De Nardis “Sei mia”

di Marisa Fiumanò
23 novembre 2018

SEI MIA. Amore violento: la differenza tra volontà di possesso e desiderio

Sei mia [1] è il titolo di un libro da cui si fa fatica a staccarsi, che si legge d’un fiato, in attesa della catarsi finale, del riscatto previsto, del momento in cui la succube si fa eroina, denuncia l’aggressore e prende in mano la propria vita. È un libro sulla violenza psicologica e fisica di un uomo nei confronti di una donna, che definisce “sua”.

Il “lieto fine” arriva dopo il racconto dei fatti, puntuale e preciso come sa farlo chi ha imparato a riferire fatti di cronaca (l’autrice è una giornalista).

Dietro i fatti ci sono i meccanismi psichici che agiscono gli attori e questo è l’aspetto su cui più ci interroghiamo nei casi di violenza. Qual è il meccanismo psicologico che fa interagire i due protagonisti e che sostiene tutta la vicenda?

Come dice ad un certo punto una terapeuta consultata da Elisabetta, la protagonista, la donna abusata, ci vuole una certa complicità da parte della vittima per permettere violenze reiterate, denunce fatte e poi ritirate così come l’esporsi al rischio di essere ammazzata.

Su questa “complicità” voglio soffermarmi. La metto tra virgolette perché in genere è definito “complice” il rapporto tra un uomo violento e una donna che si lascia sottomettere. Forse però il termine non è appropriato perché la complicità sottintende anche un obiettivo comune che invece, in questo caso, è del tutto assente.

Il compito che mi sono data è di smontare il meccanismo che ha intrappolato la protagonista di questa biografia in forma di romanzo o, meglio, come è detto in copertina, di “un romanzo in forma di diario”.

Il racconto vuole rendere partecipi i lettori della reale versione dei fatti, come se ci fosse bisogno di una prova di verità, come se Elisabetta temesse, come lei stessa, paradossalmente, dice, di non essere creduta. Si tratta anche di testimoniare dei mille vincoli – non solo psicologici ma anche legali, giuridici- delle contraddizioni e delle difficoltà in cui una donna si trova imbrigliata quando sporge una denuncia per violenza.

L’orribile vicenda, in questo caso, coinvolge anche dei bambini e pesa anche su di loro con le sue lentezze burocratiche, i cavilli giuridici, i giudici che contaminano il proprio giudizio, come è inevitabile, con la propria visione del mondo .

Sulla “complicità” della vittima, dunque, tema su cui sono stati versati fiumi d’inchiostro e su cui si basano molte controdenunce degli accusati, vorrei avanzare la mia tesi.

La “complicità”, pilastro su cui si fonda la vicenda., è dettata da un sentimento passionale privo di motivi comprensibili:

Alla base di qualsiasi mio ragionamento vi era quel sentimento così forte che mi legava a lui, quella passione che dentro me non si spegneva mai, neanche dopo i suoi sfoghi di ottusa gelosia fatti di intimidazioni e di turpiloquio. [2]

Pongo una questione preliminare: la patologia di Elisabetta è una patologia specifica che la candida ad essere vittima di violenza oppure “Elisabetta” è equivalente a un nome comune di donna, un nome che potrebbe far dire a molte: io sono Elisabetta, come si usa fare oggi quando ci si identifica con una causa e la si difende?

Una mia paziente, che non ha nessuna esperienza di abuso o maltrattamento, che non ha mai subito la sopraffazione maschile, mi dice che per lei è importante, indispensabile, essere e sentirsi “voluta” da un uomo e che essere “voluta” è per lei più importante che essere desiderata.

Voglio ribadire che questo “essere voluta” è una domanda, un’esigenza di una donna con problematiche lontane da quelle dell’Elisabetta del nostro romanzo.

Eppure anche per Elisabetta tutto gira intorno all’essere “voluta” con forza e prepotenza da Massimo, il suo compagno violento.

Essere voluta, nella lingua italiana, non ha l’ambiguità del “te quiero” spagnolo che significa anche “ti desidero”, “ti voglio” nel senso erotico del termine. Rinvia piuttosto all’essere scelta, ad un atto simbolico.

Riflettendo sul romanzo mi è tornato in mente un vecchio ricordo del latino imparato a scuola: la differenza tra peto e quero.

Quero = chiedere per sapere, peto = chiedere per ottenere. La distinzione mi è rimasta impressa (“i romani erano molto precisi nell’uso della lingua” sosteneva la mia professoressa di latino, e aveva ragione).

Quero significa chiedere per sapere, ma per sapere cosa?

Nel quero latino si chiede per sapere qual è il desiderio dell’Altro, se esso mi include, se anche lui/lei mi “chiede”.

Insomma i latini la sapevano lunga e usavano due verbi diversi per il verbo “chiedere” a seconda che si trattasse di un sapere sul desiderio dell’Altro o di qualcosa da avere, da ottenere dall’Altro (in questo caso l’Altro è l’uomo, chi rappresenta l’altro sesso).

In Sei mia la prima cosa che mi sembra stridente, data la lontananza siderale che intercorre fra i due protagonisti, è l’uso diverso che ciascuno dei due fa di questo verbo.

Già il titolo, “Sei mia”, la dice tutta. Le due parole riassumono la posizione dell’uomo violento: tu sei un’oggetto, di cui non mi interessa nè il desiderio nè la volontà, di cui uso a mio piacimento nel bene e nel male, che posso punire e maltrattare quando me lo ordina il mio sintomo, la mia patologia, la mia malattia insomma.

“Ti voglio” non equivale a dire “voglio te”, cioè un altro soggetto, un’alterità, una donna da conquistare, un oggetto estraneo e desiderabile che io eleggo a mio oggetto preferito.

“Ti voglio” e “sei mia” sono imperativi e assertivi, non ammettono repliche nè tantomeno risposte: non ammettono l’intrusione di un’altra soggettività, soprattutto non ammettono che l’oggetto sia animato da una soggettività. Insomma siamo nel registro del petere, del volere per ottenere qualcosa.

Perché ho sottolineato questo punto? Perché le donne, spesso, abusate o no, confondono il “ti voglio” con il “ti desidero” e questo rende loro facile scivolare in una storia aberrante di violenza anche se non hanno una struttura masochista e non sono necessariamente catturate dalla violenza del partner. Tuttavia la subiscono, fino alle estreme conseguenze, proprio per quella confusione tra quero e peto che invece ai romani era così chiara tanto da averla travasata nella lingua: la differenza tra chiedere per sapere e chiedere per ottenere in latino era entrata a far parte del codice linguistico.

Devo dire che mi sono interrogata, ad ogni tornante del romanzo in cui “Massimo”, il violento, la faceva sempre più grossa, sul perché Elisabetta tornasse ad accettarlo, gli permettesse di accostarla e di avere accesso ai suoi figli. Perché non lo denunciava una volta per tutte?

È l’eterna questione che si pone a chi cerca di aiutare le donne abusate ad uscire dal tunnel in cui si sono cacciate.

Mi sono detta che questo fraintendimento fondamentale tra quero e peto, di cui ho appena detto, fosse essenziale per comprendere perché tante donne si fanno vittime dei loro boia e in qualche misura, per questo, ne diventano complici; una complicità da intendere come il permettere il ripetersi della violenza, ma priva di obiettivi comuni. La patologia è certamente dal lato maschile mentre, dal lato femminile, c’è una confusione di registri: tra il registro del possesso e il registro del desiderio. Questa confusione fa parte di una fantasmatica femminile ricorrente, comune nelle donne.(3)

Intendo dire che le donne a rischio di sopraffazione sono potenzialmente molte anche se non sono masochiste per struttura.

Essere l’oggetto elettivo di un uomo, al punto che egli possa fare pazzie, “perdere la testa” è, in fondo, ciò a cui una donna, forse potremmo dire qualsiasi donna, può tenere molto.

Le donne vogliono essere “elette” da un uomo, preferite a ogni altra donna ; vogliono, come dice la mia paziente, “essere volute”.

Mi sembra che il romanzo convalidi questa tesi.

C’è, tuttavia, un momento preciso in cui la dipendenza di Elisabetta comincia a sfaldarsi: quando lei scopre che l’uomo non è solo un amante appassionato anche se un po’ folle, ma è un bugiardo e si accompagna ad altre donne. Con la moglie, con la nuova amante, fa esattamente ciò che fa con lei, dice loro le stesse cose che dice a lei: dunque mente sul fatto che lei sia davvero unica per lui.

Elisabetta scopre di non essere la sua sola Una: questo, più di ogni altra cosa, le faceva sopportare le angherie, le violenze, i comportamenti da psicopatico, la scoperta che facesse uso di droghe, che fosse ignorante e volgare, rozzo nei modi e così via.

Per ogni donna, nella sua relazione con l’uomo, si pone la questione dell’essere scelta fra tutte.

E si pone in termini di elezione: sono o non sono la sua eletta, la sua preferita, la sua Una?

Le donne sanno che La Donna, la Una non esiste, che le donne, come dice Lacan, sono non-tutte . Per questo motivo possono essere gelose, invidiose l’una dell’altra. Sanno di essere imperfette, che manca sempre loro qualcosa, che non c’è un universo delle Donne, un’unità del femminile, che le donne vanno prese una per una.

Lo sanno ma vogliono esserlo, Una, la preferita, per un uomo, almeno per Uno, per il loro Uno. Il mio uomo, così chiamiamo colui che ci elegge, che ci fa sentire speciali, fatte apposta per lui.

L’uomo passionale e violento, come il Massimo del romanzo, incarna perfettamente questo Uno immaginario.

Il libro testimonia la violenza di cui noi lettori siamo spettatori impotenti, proprio come Elisabetta. Una violenza che ha però anche un effetto di fascinazione per la crudeltà, la durezza, le certezze assertive del protagonista, il cosiddetto “uomo forte” che prende senza chiedere, che non accetta le regole, che crea e impone la sua legge, che non conosce e non rispetta i limiti: per dirlo con una definizione psicoanalitica, un uomo che non sarebbe, come tutti, soggetto alla castrazione. Lui pretende, afferma di fare eccezione., di non essere come tutti gli altri.

Sappiamo che si tratta invece di narcisismo, prepotenza, tracotanza, arbitrarietà, di un personaggio francamente psicopatico, eppure comprendiamo il malessere e la confusione di Elisabetta.

Le donne sono particolarmente esposte a confondere una volontà di possesso che nega la soggettività femminile con il desiderio che è fondato invece sul riconoscimento dell’ alterità, sul rispetto della differenza, sul fascino per l’estraneità femminile.

Dobbiamo allora tornare alle basi, alla madrelingua latina per marcare la differenza tra peto, chiedere per ottenere e quero, chiedere, desiderare un altro soggetto, una donna, che vuole e desidera ma in modo diverso rispetto a un uomo.

Nel caso di Massimo si tratta di un uomo che non riconosce il desiderio di maternità della donna, che la obbliga ad abortire, che la pesta perfino quando è incinta.

La differenza elementare ma basilare tra peto e quero va insegnata alle bambine, va trasmessa dalle madri alle figlie, va sostenuta dai padri.

Con quest’affermazione, anche se in chiusura di queste mie note, apro su un altro grande tema, uno dei molti che sono a monte della violenza maschile, ma centrale: il valore che i genitori danno all’essere femmina delle loro bambine. Se il sesso delle bambine è svalorizzato la strada che le figlie percorreranno non potrà che essere tutta in salita.

Note:
1) Commento al libro di Eleonora De Nardis: Sei mia Un amore violento, Bordeaux edizioni Roma 2018
2) ivi, p.26
3) vedi Marisa Fiumanò: Masochismi ordinari, Mimesis edizioni Milano 2016

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