Il Disagio della civiltà dal mantello di san Martino a La dolce vita

di Marco Cambi
anno: 2020
Editore: Associazione lacaniana internazionale Milano

Una riflessione dal capitolo XIV del seminario di Lacan L’etica della psicanalisi

Intervento al terzo incontro di ALI in Italia su L’Etica della psicanalisi

Il punto di partenza per questa riflessione è la citazione presente nel capitolo XIV del Seminario VII L’Etica della psicoanalisi in cui Lacan parla dell’amore per il prossimo e più precisamente dell’episodio di san Martino (pag. 219 e seguenti).

Ricordiamo brevemente l’episodio di san Martino: un giorno, quando Martino è ancora un soldato romano, incontra un povero. Senza pensarci, taglia con la spada il proprio mantello e lo offre al mendicante; immediatamente il sole si alza in cielo e la temperatura si scalda. La notte successiva, Martino ha una visione: Gesù gli fa visita e gli riporta il pezzo mancante del suo mantello. Al risveglio, il mantello è nuovamente intatto; a seguito di questo episodio, Martino decide di farsi battezzare, di lasciare l’esercito e di prendere i voti (e diventerà vescovo nell’anno 372 a Tours).

Questo episodio ci fa riflettere su due aspetti: il primo, più vicino al piano etico, evidenzia una divisione tra il nostro (presunto) bene e il bene dell’altro a cui non è allineato. Lacan pone la questione di come queste due posizioni potrebbero non incontrarsi mai; ci suggerisce, inoltre, che il povero potesse forse mendicare qualcos’altro: forse voleva che san Martino lo uccidesse o anche che lo fottesse, e quindi non volesse necessariamente essere aiutato come san Martino ipotizzava. Ecco qui un primo spunto di riflessione e di lavoro, la possibilità di un non incontro tra il bene presunto (in questo caso di san Martino) e quello di un altro (il mendicante).

Su questo stesso tema che riguarda il comandamento dell’amore per il prossimo, anche Freud nel Disagio della civiltà si è fermato inorridito, prevedendo possibili conseguenze se non si consideri sufficientemente la presenza della malvagità fondamentale insita nell’essere umano. Questa malvagità “abita anche a me” (intendendo sia san Martino sia il mendicante in questo esempio): appena ci sia avvicina troppo a esplorare questa malvagità, in quel momento sorge un’esondabile aggressività a fronte della quale ci ritraiamo. È un’aggressività negata che, come dice Lacan, «impedisce di varcare un certo confine sul limite della Cosa». Quindi l’essere umano rimane da questa parte, si accontenta di esplorare il bene degli altri purché rimanga a immagine del proprio bene. Lacan accenna a questa strada come «poca cosa», definendo in questo modo anche un certo tipo di “beneficenza”. Un conto è il proprio bene fatto “a propria immagine”, un altro conto un vero approfondimento sull’amore che sarebbe tutta una altra questione.

Lacan parla infine, sempre riguardo all’episodio di san Martino, di un’altra possibile direzione dell’amore per il prossimo, che egli definisce più sacrificale, e cioè il fatto che cercando la felicità dell’altro si possa arrivare a sacrificare la propria vita. Ma per trovare, attraverso l’amore per il prossimo, un più profondo senso dell’amore, devo saper anche affrontare il godimento del mio prossimo, il suo godimento nocivo, il suo godimento maligno che in realtà si presenta come il vero problema per il mio amore.

Lacan termina poi il ragionamento accennando ad alcuni esempi come quello di Angela da Foligno e Maria Alacoque che colloca al di là del principio di piacere (ricordiamo che Angela da Foligno beveva l’acqua in cui aveva lavato i piedi dei lebbrosi): qui, ci dice Lacan, stiamo andando al di là del principio di piacere verso il lato innominabile della Cosa, oltre il nostro giudizio. E questo percorso «oltre il limite del nostro giudizio» sarà portato avanti nei capitoli successivi in cui si parlerà di Sade.

Tornando all’episodio di san Martino, nella pagina successiva alla descrizione dell’episodio viene approfondito il tema dell’utilitarismo, che è un tema che ritorna in due o tre punti nel seminario; ricordiamo che Jeremy Bentham, fondatore di questa dottrina, è stato un filosofo e giurista inglese che scriveva nella stesso periodo della rivoluzione francese (1789-1799) fino ai primi anni dell’Ottocento.

Semplificando inevitabilmente la voluminosa opera di Bentham, ricordo come l’utilitarismo è una dottrina filosofica basata su un principio di utilità intesa come il massimo della felicità per il massimo numero di persone. In pratica Bentham parla di una massimizzazione del benessere sociale.

Questo principio, innanzitutto, ci fa riflettere su come sia complicato tenere insieme le esigenze soggettive con quelle della collettività per la quale dovrebbe essere garantito il massimo del benessere sociale: mi sembra che ci sia qualche cosa che strida a priori tra la possibilità di utilità generale e la singolarità del soggetto.

Ma quello su cui mi vorrei soffermare maggiormente è che Lacan ci indica come tutto quanto si colloca a livello dell’utile possa essere un pretesto per evitare di affrontare il problema del male. «Il mio egoismo si soddisferebbe benissimo con un certo altruismo che si colloca a livello dell’ utile».

Anche in questo passaggio si riprende quanto evidenziato nel Disagio della civiltà e cioè l’ipotesi che la società riesca a tenere a bada i turbamenti della vita affettiva provocati dalla pulsione aggressiva e autodistruttiva degli uomini. Il disagio esiste nella misura in cui la civiltà e la sua evoluzione cercano di fare i conti con l’al di là del principio di piacere, contenendo le pulsioni.

Per completare almeno parzialmente il discorso sull’utilitarismo ricordo che Lacan, in una parte successiva del seminario (capitolo XVII: La funzione del bene) ci ricorda come l’utilitarismo rappresenti un primo momento di rottura nella storia dell’etica, che travolge tutto quanto iniziato dal discorso del bene di Aristotele: per la prima volta il discorso del bene è istradato su un ragionamento che affronta la questione a livello del significante, ragionamento che oggi definiremmo come riguardante l’algoritmo, il calcolo, la massimizzazione di questa funzione di utilità che calcola il bene mediante un meccanismo simbolico. (Da questo punto di vista sarebbe vicina alla psicoanalisi che è un altro dispositivo simbolico, anche se regolato da un reale differente).

Per la prima volta, tornando all’esempio della stoffa, il bene non si articola più sull’uso della stoffa ma sul fatto di poterne usufruire, di poterne disporre. E disporre dei propri beni ci garantisce (ci dice Freud nel Disagio) il potere di privare gli altri, di esercitare il potere ad esempio attraverso la privazione (anche al di là del principio di piacere).

Alla luce di queste considerazioni riprendo brevemente un passaggio che si trova nel capitolo VII in cui Lacan, parlando della sublimazione, si sofferma sulla pulsione e sulle sue “esche”. Lacan ci parla sublimazioni socialmente accettate e, sempre citando il Disagio della civiltà, ci indica come la società troverebbe una certa felicità nei miraggi che le forniscono i moralisti, gli artisti, gli artigiani, i fabbricanti di abiti e di cappelli, tutti creatori di forme immaginarie.

Sono queste funzioni immaginarie, elementi a piccolo, elementi immaginari del fantasma che intervengono come copertura e fanno per il soggetto da esca nel punto stesso di Das Ding. In due diverse maniere cioè, sul limite di Das Ding, esiste un percorso della sublimazione ma esiste anche un percorso di esca immaginaria fantasmatica che rivolge la pulsione verso gli oggetti a.

Come se, sull’apertura di questa faglia ai limiti della Cosa, esista la possibilità che questa pulsione possa prendere un’altra strada, che è quella dell’esca.

Prendendo come spunto quanto abbiamo commentato finora cerchiamo di vedere queste due strade: ad esempio, quella dell’utile prevede tra le sue possibilità una sorta di “copertura” che si ferma molto prima di fronteggiare la pulsione; l’altra strada invece è quella che ci spingerebbe un po’ più in là.

E proprio sulla spinta della questione che riguarda l’esplorazione della pulsione ai limiti della Cosa, vorrei citare una pagina che Lacan include nel capitolo XIX, dicendoci che alcuni suoi lettori attenti avrebbero ritrovato “la sua famosa Cosa” nella scena finale del film La dolce vita di Fellini.

Ricordo brevemente quest’ultima scena del film i cui protagonisti sono definiti da Lacan come viveur, personaggi che esprimono una certa decadenza della società al tempo dei primi paparazzi (fine anni ’50). Tra di essi, lo stesso protagonista Marcello è un fotografo che viene più volte tentato dalla possibilità di vivere una vita di piacere e ha appena passato insieme agli altri viveur una notte di godimento in una villa vicino alla spiaggia. Ebbene questi viveur si ritrovano all’alba sulla spiaggia in mezzo ad alcuni pescatori che recuperano nella rete di pesca una grossa creatura marina con sembianze mostruose, che lo stesso Lacan definisce una «schifezza». Ognuno dei personaggi commenta brevemente questo “mostro” con una battuta, ma è proprio Marcello che dice: «sembra che mi guardi».

Lacan termina il suo commento evidenziando come si tratti di un momento speciale e unico e descrive infine questi viveur che ritornano da dove sono venuti sulla spiaggia dicendo che «resteranno quasi sempre così invisibili del tutto similmente alle statue che si muovessero in mezzo agli alberi di Paolo Uccello».

Cercando di inquadrare questa scena all’interno di quanto commentato fino a questo punto, cerchiamo di evidenziare due aspetti, due strade e due possibilità di questo istradamento della pulsione: il primo è più vicino a quello dei viveur che, pur trovando una iniziale attrazione, rifiutano la possibilità di avvicinarsi a questa rappresentazione della Cosa, preferendo rimanere come direbbe Lacan «invisibili»; la seconda possibilità è quella di Marcello che si spinge più a fondo, più verso il limite e, chiamato in causa da questa Cosa, si domanda se la Cosa “lo stia guardando”, cioè se lo stia in qualche modo convocando. E la stessa convocazione egli ritrova poco dopo incontrando la giovane ragazza (rappresentazione della purezza e incarnazione di una possibile strada di salvezza per Marcello) che lo saluta da lontano ma alla quale il protagonista non risponde dicendo di non riuscire a sentire.

È come se di fronte allo medesimo “mostro” ognuno avesse il proprio modo di reagire, chi fermandosi al punto di esca e chi invece cercasse di andare oltre, a sfiorare e abbordare il proprio fantasma al limite della Cosa, così come tenterebbe di fare invano Marcello rispetto agli altri viveur.

E la scena poetica tocca il suo apice quando la ragazza per un istante volge lo sguardo verso lo spettatore convocando tutti noi a nostra volta “ai limiti del reale della Cosa”.

Ultimi articoli

Dodici luoghi lacaniani della psicoanalisi

dodici luoghi lacaniani della psicoanalisiClinica psicoanalitica dei legami sociali di Fabrizio Gambini. Franco Angeli, 2018. Collana Clinica psicoanalitica dei legami sociali. Pagine 174Fabrizio Gambini, psichiatra e psicoanalista, è membro dell'Associazione...

Lo straniero che ci abita. Dialoghi intorno al corpo

Lo straniero che ci abita. Dialoghi intorno al corpo

Lo straniero che ci abita. Dialoghi intorno al corpoEditore: Castelvecchi Anno: 2021 Collana: Correnti Pagine: 90 Marisa Fiumanò (a cura di)Con il corpo si dice molto più di quanto non si abbia intenzione di dire. Il corpo ci tradisce in continuazione, comunica ciò...

La dinamica della cura. Pulsione, rimozione, ripetizione

La dinamica della cura. Pulsione, rimozione, ripetizione

La dinamica della cura. Pulsione, rimozione, ripetizioneAutore: Jean-Paul HiltenbrandEditore: MimesisAnno: 2019Collana: NodiPagine: 132Jean-Paul HiltenbrandA cura di: Marisa Fiumanò e Alessandro BertoloniQuesto libro è composto dalle trascrizioni di tre Seminari...

Un commento al libro di Eleonora De Nardis “Sei mia”

Un commento al libro di Eleonora De Nardis “Sei mia”

Un commento al libro di Eleonora De Nardis "Sei mia"di Marisa Fiumanò23 novembre 2018SEI MIA. Amore violento: la differenza tra volontà di possesso e desiderioSei mia [1] è il titolo di un libro da cui si fa fatica a staccarsi, che si legge d'un fiato, in attesa della...

Psicanalisti a confronto con… il coronavirus

Psicanalisti a confronto con… il coronavirus

Psicanalisti a confronto con... il coronavirusDossier: ALI Milano anno: 2020Testi di: P. Barbetta, M. Fiumanò, J.-P. Lebrun, S. Morath, G. Romagnulo Alcuni psicanalisti comunicano le loro riflessioni sull’esperienza con il reale del covid 19. INDICE Pietro Barbetta....

La nuova economia psichica

La nuova economia psichica

La nuova economia psichica.Il modo di pensare e di godere oggi Editore: MimesisAnno: 2018Collana: NodiPagine: 188 Charles Melman. Prefazione di Jean-Pierre Lebrun.A cura di: Marisa Fiumanò e Alessandro BertoloniIn questo testo Charles Melman, uno degli allievi più...

Inscrivere l’istinto di morte

Inscrivere l’istinto di morte

Inscrivere l’istinto di mortedi Marisa Fiumanò20 Maggio 2017Relazione pronunciata in occasione della Giornata dell’ALI in Italia dedicata al seminario di J. Lacan: L’Io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi che si è tenuta nella sede dell’ ALDN di...

Lacan trent’anni

Lacan trent’anni

Lacan trent’anniDossier: ALI Milano anno: 2017La clinica, la teoria, la cultura, il socialeInterventi di: F. Capelli, M. Fiumanò, M. Focchi, S. Vegetti Finzi, A. Bertoloni, P. Scarano, M. Morale, R. Ronchi. INDICE Ferruccio Capelli. Introduzione. p.1 Marisa Fiumanò....

Il desiderio e la sua interpretazione. Tomo 2

Il desiderio e la sua interpretazione. Tomo 2

Il desiderio e la sua interpretazione Seminario 1958-1959 Autore: Jacques LacanAnno: 2016Tomo: 2Pagine: ... Pubblicazione fuori commercio. Documento interno all’Association lacanienne internationale e destinato ai suoi membri Jacques LacanSeminario VIUltimi...

I seminari

« J’ai fait entrer un éléphant dans mon séminaire…»

« J’ai fait entrer un éléphant dans mon séminaire…»

« J’ai fait entrer un éléphantdans mon séminaire…» Ho fatto entrare un elefante nel mio seminariodi Marc Moralianno: 2013Editore: Éditions érèsMARC MORALI, psichiatra e psicoanalista a Strasburgo, membro dell'Associazione lacaniana internazionale, direttore della...

Un’altra metà del cielo. Lacan e l’omosessualità femminile

Un’altra metà del cielo. Lacan e l’omosessualità femminile

Il caso della giovane omosessuale è una pietra angolare nella clinica dell’omosessualità femminile [1]. Lacan parla della giovane omosessuale sino al 1968, anno del Seminario XV L’atto analitico dove affronta la questione dell’inconscio menzognero a proposito dei sogni riferiti dalla giovane paziente. Poi si perdono le tracce di questo caso clinico caratterizzato dal confronto fra due padri. Un padre che contrariamente a Freud soffre su un piano della sua reputazione sociale dell’omosessualità della figlia, o dichiara di soffrirne e si comporta come se fosse vero, e Freud che, al contrario, proprio negli stessi anni non sembra preoccuparsene troppo. Anna, che si dedicherà tutta la vita al padre, diventerà il primo presidente dell’IPA, con un’accettazione sociale e semipubblica della sua scelta sessuale.

“Je préférerais pas”

“Je préférerais pas”

Le « Je préférerais pas » du Bartleby de Melville n’est-il pas en train de se généraliser dans notre société ? Ne nous sommes-nous pas progressivement autorisés à refuser la limite, à rejeter la contrainte, toutes deux étant aujourd’hui « ressenties » comme des atteintes au développement de notre individualité ?

Jean-Pierre Lebrun lance une alerte : il existe un lien étroit entre la construction psychique individuelle et la dimension sociétale aujourd’hui largement tributaire de l’idéologie néolibérale. Notre société en mutation n’a pas pris la mesure de la nécessité de mettre fin au fantasme de toute-puissance de l’enfant pour qu’il devienne un citoyen responsable et non pas uniquement un consommateur avide, pris toujours davantage dans des addictions.

Ethical and Aesthetic Explorations of Systemic Practice

Ethical and Aesthetic Explorations of Systemic Practice

In Ethical and Aesthetic Explorations of Systemic Practice, the four co-authors come together to rhizomatically consider how systemic theories can be reinvigorated in the present day.

This fascinating book uses the ideas and work of renowned anthropologist Gregory Bateson as a springboard from which to examine the fundamental tenets of systemic theory and practice, as well as looking to the work of Deleuze, Guattari, Maturana, Varela and von Foerster. Including contributions from a range of renowned therapists, each chapter examines the guiding principles from a critical perspective, asking questions around the ontology of the therapeutic encounter and the technique of therapy itself.

This revivifying volume will be of interest to systemic professionals, and those looking at how the systemic community can continue to grow and evolve.